GRANDE SUCCESSO – Vista la raccolta in questa prima metà dell’anno dei prodotti dedicati, i PIR (Piani Individuali di Risparmio) rappresentano senza dubbio un successo, sia per le società di gestione, che per il governo che li ha introdotti, spiega una nota di Consultinvest. Il concetto non è nuovo, ma è stato mutuato da simili iniziative presenti in molti altri paesi. Nel caso dei PIR si è voluto incentivare tramite la fiscalità il sostegno alle imprese italiane o con stabile organizzazione in Italia, rispetto ad altri paesi in cui l’obiettivo ad esempio è incentivare l’investimento di lungo termine o la costruzione di una pensione integrativa. Gli aspetti positivi sono evidenti sia per le imprese che possono così disporre di flussi di capitali in alternativa al canale bancario, sia per gli investitori che potrebbero beneficiare di una totale esenzione fiscale sulle plusvalenze.
ASPETTI CRITICI – E’ quindi il migliore dei mondi possibili ? No, perché ci sono alcuni aspetti a cui fare attenzione. Prima di tutto l’investimento è vincolato per cinque anni e deve essere mantenuto in un “contenitore” fiscale dedicato e non cointestato (polizza assicurativa, gestione, conto titoli ecc.). Su eventuali prelievi nel corso dei cinque anni si applicano le normali aliquote fiscali. In secondo luogo è un investimento focalizzato (almeno per il 70%) agli strumenti finanziari delle imprese della UE con stabile organizzazione in Italia. E’ un settore con grandi potenzialità, dato che molte imprese italiane sono leader nel mondo, e dato che il made in Italy all’estero è sinonimo di qualità ed eccellenza. In una allocazione di portafoglio complessiva però essere integrato, in funzione del profilo e degli obiettivi dell’investitore, da altre aree geografiche e/o da altre classi di attività in modo da essere una componente (anche importante per un investitore italiano, ma non unica) di un portafoglio diversificato. In altre parole l’investitore deve valutare se la soluzione proposta è coerente con i propri obiettivi di investimento e non deve pensare esclusivamente al (potenziale) risparmio fiscale, anche se sostanzioso.
NON SONO INVESTIMENTI AZIONARI – Inoltre è opportuno chiarire che i PIR non equivalgono all’investimento azionario in medie aziende italiane come molte pubblicità fanno intendere. La legge prevede che almeno il 70% del PIR sia investito in strumenti finanziari (azioni E obbligazioni) emesse da aziende UE con stabile organizzazione in Italia e che almeno il 30% di questo (cioè il 21% del totale) sia in aziende non incluse nell’indice FTSE MIB (o equivalenti). Il PIR può quindi essere investito fino al 30% senza limitazioni e fino al 49% in azioni o obbligazioni (ad esempio) di ENEL, ENI ecc. C’è quindi da prestare particolare attenzione all’enorme flusso di capitali che da inizio anno si è focalizzato su prodotti che investono con strategie attive o passive specializzate sulle small cap, ovvero su un segmento di mercato che è tipicamente meno liquido delle blue chip. Secondo molti analisti ci sono infatti parecchi casi di società che hanno raggiunto valutazioni molto elevate, difficilmente sostenibili dai (pur buoni in alcuni casi) fondamentali. E’ vero che le small cap in generale negli ultimi mesi hanno fatto meglio delle large cap, ma gli indici delle small cap italiane da inizio anno evidenziano una sovraperformance non spiegabile soltanto con i fondamentali. inoltre l’investitore, come sempre, deve valutare se la soluzione proposta è davvero innovativa e efficiente. Alcune società infatti hanno approfittato dell’occasione per rivitalizzare vecchi prodotti azionari Italia o bilanciati, evidenziando che erano già conformi ai requisiti dei PIR. Altre ne hanno invece sviluppati di nuovi, azionari o bilanciati con costi più alti di prodotti analoghi non conformi ai PIR. Altre ancora hanno dato una interpretazione più ampia del requisito sulla “stabile organizzazione in Italia” e comprendono nell’universo investibile molte mid-small cap europee.
NON PER TUTTI – In conclusione lo strumento è valido è presenta delle ottime opportunità, ma come sempre in finanza, non è LA soluzione di investimento valida per tutti. Gli investitori dovranno valutare se i vincoli di cinque anni sono compatibili con le proprie esigenze, se le caratteristiche di minore liquidità e maggiori costi di intermediazione (di almeno il 21% del PIR) sono sufficientemente chiare, se la limitazione geografica dell’investimento si integra con le altre componenti del proprio portafoglio e, ovviamente, se la soluzione proposta è coerente con i propri obiettivi di investimento. Infine, a parità di condizioni, dovranno valutare se un approccio più flessibile può costituire una migliore opportunità rispetto a strategie più focalizzate sulle mid-small cap che già oggi evidenziano alcune aree con valutazioni molto elevate. Sarebbe infatti piuttosto deludente per un investitore arrivare al quinto anno e scoprire che l’investimento nel PIR (con i vincoli evidenziati in precedenza) non ha prodotto plusvalenze e quindi non si ha alcun beneficio fiscale, ma una minusvalenza, conclude la nota.
Fonte:Bluerating